venerdì 14 dicembre 2012

Passeggiando in Bicicletta: corsi e ricorsi del consumatore al tempo della crisi

Sia al liceo sia all'Università mi sono imbattuto negli studi di G.B. Vico e nella sua idea più celebre, ovvero "i corsi e ricorsi della storia". Il filosofo russo Alexander Kojeve nel suo "The end of history" più o meno argomentava qualcosa di simile dicendo che (sintetizzo brutalmente) ormai tutto si è detto, fatto e visto: quindi nulla di nuovo è possibile ma soltanto la replicazione di qualcosa già avvenuto. 
Leggendo i giornali di queste ultime settimane ho avuto la sensazione che questi principi di ciclicità siano applicabili per analizzare e commentare le evoluzioni della domanda ai tempi della crisi. Non posso non notare, infatti, come in tempi di vacche magre il consumatore (io, tu, noi) abbia sempre lo stesso atteggiamento: risparmiare, tagliare ove possibile ed evitare gli sprechi. Tanto per citare qualcosa, leggasi le news qui di seguito:

- Sempre più consumatori protestano e chiedono alle aziende (che li accontentano...) di utilizzare spremere fino all'ultima goccia le confezioni di shampoo o dentifricio da loro acquistate.

- Sempre più lavoratori per la pausa pranzo sostituiscono con un frugale spuntino, molto spesso preparato a casa, il tradizionale pasto al bar o al ristorante sotto l'ufficio, di certo più lauto ma anche più dispendioso.

- Sempre più cittadini diventano salutisti per necessità, dando così vita alla rinascita della passione italica per le biciclette dopo l'esorbitante aumento del prezzo della benzina nel corso degli ultimi anni.

Proprio quest'ultimo fenomeno non è affatto nuovo nel nostro Paese. Come si evince da fonti istituzionali, già negli anni '70, per colpa perlopiù della crisi petrolifera, si intensificò l'uso della bicicletta per spostarsi in città. Come si vede dal grafico a lato, a partire dagli anni '70 l'aumento della produzione di biciclette è netto, proprio in concomitanza dell'incremento del costo del petrolio. Nel mondo, da tanti decenni cittadini di nazioni come l'Olanda utilizzano prevalentemente  le biciclette per soddisfare i propri bisogni quotidiani di trasporto urbano. Con la differenza però che nei Paesi Bassi l'utilizzo delle due ruote è sempre stato fondato su un modello culturale green, attento all'impatto ambientale e all'inquinamento, qui da noi ancora perlopiù assente. La necessità di stringere la cinghia, però, sembra essere per tanti una spinta più che sufficiente per avvicinarsi, forse anche inconsapevolmente, a questo modello.
Per l'anno prossimo si prevede ancora una crescita del comparto delle biciclette, unico ad aumentare la propria quota di mercato nel locomotive dell'industria italiana. Che questa exit-strategy dall'utilizzo dell'automobile sempre e comunque sia essa stessa una prima spinta verso il superamento della attuale crisi? Negli anni '70 di certo questa nuova sensibilità fu d'aiuto, insieme a tante altre condizioni di contesto che consentirono di andare oltre la crisi petrolifera causata dalla tensione nei rapporti tra OPEC e mondo occidentale.
Ovviamente la situazione oggi è un po' più complicata di quella di 40 anni fa ma, se si è convinti che Vico e Kojeve abbiano ragione, forse si può quantomeno sperare in un inizio di ripresa e in un futuro più roseo. Oltre che in forma e salute...


domenica 18 novembre 2012

La vacuità della digitalizzazione

Dopo mesi di silenzio ritrovo finalmente un po' di tempo e testa per scrivere qualcosa (credo e spero) di interessante su questo blog. L'oggetto del post riguarda un tema a me scientificamente molto caro. Qualche settimana fa parlavo con un amico e si discuteva su quella che oggi, dopo qualche riflessione, potrei definire come "la vacuità del digitale". Ero con un gruppo di amici a Parigi per un sereno week-end di piacere e, in quei giorni, ognuno di noi ha dimostrato di essere un ottimo "giapponese mancato". Infatti, siamo stati divorati e assaliti da una nipponica (quanto immancabile) smania di fotografare qualsiasi cosa o essere vivente che si trovasse nei vari arrondissement da noi visitati: venditori ambulanti di crepes, brasserie, negozi di culto sui Campi Elisi, parchi e quant'altro. Immancabile, "obviously", la Torre Eiffel. Le nostre macchine fotografiche digitali, smartphones, Ipad ci hanno consentito di scattare una marea di foto ciascuna legata a qualche momento o ricordo, a prescindere se fosse futile o significativo, della nostra permanenza in Francia.
E se invece fossimo stati non nel 2012 ma nel 1982 e avessimo avuto a disposizione solo qualche Polaroid o macchina fotografica analogica con un numero limitato di scatti disponibili? L'avere con la tecnologia digitale una quantità pressoché illimitata di "scatti" a costo ormai nullo rende più vacuo il singolo momento in cui essa stessa viene scattata. Frase tipica di questo paradigma potrebbe essere "vabbè, facciamone 3 o 4, tanto poi quelle che vengono male le cancelliamo...".
L'analogico, invece, proprio per la sua limitatezza di mezzi ti costringe a selezionare aprioristicamente e severamente i soggetti delle foto, a essere concentrato quando ti stanno per fotografare. In altre parole, l'analogico ti costringere spesso (non sempre ovviamente) a vivere con più intensità il momento di cui sei "attore protagonista" mentre il digitale tende a renderti, molto più vacuamente, un semplice osservatore di quell'attimo.
La tecnologia digitale garantisce un'efficienza tecnica spaventosa ma depaupera e banalizza in parte il significato, i contenuti e il lato emozionale del soggetto che la utilizza. Proprio perché non ti obbliga, come avrebbe detto più di 30 anni fa un superlativo Robert De Niro, a "un colpo solo"...



domenica 20 maggio 2012

Se la Coppa dei Campioni sconfessa (un po') la Resource-based View

Per chi non studia l'impresa dico subito che la Resource-based View (RBV) è un approccio teorico secondo cui, in breve, l'impresa che detiene risorse critiche e di valore dovrebbe superare agevolmente la concorrenza grazie a un vantaggio competitivo fondato proprio su tali risorse aziendali. Ieri sera il Bayern Monaco, tuttavia, ha palesemente fallito nell'applicare questo principio teorico. Sebbene il destino gli avesse consentito di godere di un immaginabile vantaggio competitivo (giocare  davanti al proprio pubblico nel meraviglioso Allianz Arena), la squadra di Monaco di Baviera ha perso ai calci di rigori la finale di Champions League contro il Chelsea, squadra che poco più di 2 mesi fa stava per essere sbattuta fuori dalla competizione europea dal Napoli (e chi se la scorda quella partita...). Il Bayern ha più volte avuto la possibilità di chiudere l'incontro ma alla fine ha sprecato tutti i match point a sua disposizione. Destino beffardo: giocare a casa propria, davanti a decine di migliaia di propri tifosi invasati e...perdere una delle partite più importanti della propria storia. Stessa identica sorte capitò nel lontano maggio 1984 alla Roma Campione d'Italia che all'Olimpico venne battuta sempre ai rigori dal Liverpool di Bruce Globbelaar.



E se, alla fine,  il possesso di un vantaggio competitivo troppo schiacciante nei confronti dei competitors e (ab origine) di una risorsa critica "troppo critica" fossero dei "gap" per l'organizzazione piuttosto che dei punti di forza? La pressione nel gestire e sfruttare al meglio tali, troppo vantaggiose, condizioni può generare una sorta di "ansia da prestazione" che, congiuntamente con altre variabili di contesto, potrebbe rendere il team meno efficace nel perseguimento dei propri obiettivi. O addirittura condurre a incredibili fallimenti, leggendari psico-drammi come quelli di Monaco di Baviera 2012 o di Roma 1984. Potrebbe esistere, in altre parole, un effetto boomerang del vantaggio competitivo d'impresa?
Sono almeno tre anni che non mi occupo di RBV. Quindi non so se il tema e l'ipotesi succitata siano stati trattati in letteratura. E almeno per i prossimi sei-otto mesi non avrò tempo per farlo. Però, mai dire mai...



martedì 10 aprile 2012

La grana padana e il valore legale del titolo di studio

Nel recente scandalo che ha coinvolto i nostri amici Leghisti un aspetto particolare fra i tanti, a mio avviso, merita una riflessione: l'accanimento con cui gente come il Trota e aspiranti Frank Sinatra come Pier Mosca (presunto toy-boy della Vice-Presidente del Senato della Repubblica Italiana) ambivano al "pezzo di carta", una laurea comprata da università fasulle in giro per l'Europa.

Perchè gente tanto rozza e volgare (dimenticavo, Kooly Noody...questo è il titolo della hit del nostro mitico cantastorie leghista) vuole una laurea da appendere al muro quando già possiede (o utilizza) ville, auto di lusso e via discorrendo? Cosa se ne fanno di una laurea queste persone, soprattutto quando questa non è stata il risultato finale di un processo formativo utile a farle uscire dalla loro ignoranza padana?

Una risposta secondo me plausibile è nel tanto dibattuto valore legale del titolo di studio. In Italia sono oltre 60 anni (dai tempi di Luigi Einanudi) che si dibatte sulla necessità o meno di conferire al titolo di studio un valore legale per accedere, per esempio, ai concorsi pubblici. Attualmente è aperto un sondaggio sul sito MIUR per comprendere il pensiero degli Italiani sull'argomento (sebbene tuttavia il sistema di raccolta dati e il questionario facciano acqua da tutte le parti).

Renzo Bossi e i suoi simili di certo con il pezzo di carta acquistato a suon di Euro non ambivano al posto pubblico (ma poi in Padania o in Italia?). Semplicemente tentavano di arrivare a quello "status symbol" (ma esiste ancora davvero?) che un diploma di laurea dovrebbe offrire aggirando il sistema ufficiale (certamente in parte criticabile e revisionabile) tramite cui ci si arriva nel nostro Paese. La laurea non ha solo un valore legale. Ma nell'immaginario collettivo nostrano ha sempre avuto (seppur oggi molto meno) anche un valore socio-relazionale (se non sei laureato non potresti sedere confortevolmente a certi tavoli o esser trattato da pari da certi personaggi...). Sulla solidità e sulla correttezza di questa opinione ai giorni nostri si potrebbe a lungo discutere, ma tant'è.

Pensiamo ora a cosa i nostri amici leghisti avrebbero fatto se non ci fosse stato questo fastidioso vincolo di legalità del pezzo di carta? Semplicemente sarebbero andati in qualche istituto di alta formazione padano (ma con sede nel territorio Italiano) e avrebbero ritirato la loro pergamena (quasi) senza colpo ferire. L'unica similitudine tra questo scenario e quanto realmente avvenuto sarebbe stata l'origine dei soldi con cui Renzo e Pier si pagavano la loro laurea: le nostre tasse. E lo stesso avrebbe potuto fare chiunque aprendo i cordoni della borsa.

A questo punto, la domanda è: una nazione per crescere ha più bisogno di una classe dirigente composta da tanti Dottor Trota, che potrebbero anche aver conseguito la loro laurea trovandola in una busta di patatine, oppure da tanti Dottor X, di cui si ha una minima (ripeto e sottolineo minima) cognizione delle loro competenze e nozioni?


mercoledì 28 marzo 2012

Il Made in Italy delocalizzato e la trasformazione degli oggetti in cose

Gli oggetti che quotidianamente utilizziamo non sono soltanto artefatti destinati a uno specifico uso ma (per dirla alla Godard in "2 o 3 cose che so di lei") molti di essi sono pezzi fondamentali della nostra esperienza individuale e sociale. Mezzi con cui siamo legati al mondo esterno e, se ci pensiamo, a noi stessi.

Ho pensato a questo dopo aver visto un malinconico (ma benfatto) video su Repubblica.it sui "Fantasmi di Carosello", ovvero sulla morte (o quantomeno sulla perdità di Italianità) dei più importanti marchi e/o fabbriche del Made in Italy degli anni '60 e '70. Questo drammatico risultato è avvenuto per mano (perlopiù) della delocalizzazione verso i soliti noti paesi con manodopera a basso costo (schiavi).

A mio avviso delocalizzare la produzione di oggetti come questi, dotati di un fortissimo significato socio-culturale e storico, non significa soltanto la perdita di migliaia di posti di lavoro nazionali.

Quando un'impresa nazionale delocalizza modifica inevitabilmente anche il nostro rapporto consolidato con quell'oggetto di culto del "Made in Italy" che noi abbiamo (e probabilmente anche i nostri genitori hanno) utilizzato, amato, ammirato, apprezzato e conosciuto in profondità, e talvolta forse anche "sfidato".
L'oggetto del Made in Italy delocalizzato non è più un orgoglio nazionale, un qualcosa in cui identificarsi parzialmente, il risultato finale di un processo produttivo cui i nostri nonni, padri, zii o amici hanno contribuito. Oggi chi si sente più italiano o patriottico nel guidare una FIAT (sebbene circolino in TV spot patetici e opportunistici come questo?)

L'impresa "ex" Made in Italy rischia di produrre facilmente una frattura emozionale tra i propri oggetti delocalizzati e i suoi clienti storici, che hanno amato quell'oggetto quand'esso era tricolore.
Proprio perchè essi adesso si trovano davanti non più un raffinato oggetto di piacere e soddisfazione personale e nazionale ma, quasi sempre una semplice e banale cosa....



lunedì 19 marzo 2012

Thomson Reuters vs Scopus (ovvero, come al solito, sistemi chiusi vs sistemi aperti)

Nel dibattito attualmente in corso nell'accademia italiana sulla bibliometria si sta profilando, a mio avviso, un'interessante competizione tra sistemi di indicizzazione (e sistemi di ranking) delle riviste scientifiche internazionali. Per l'esempio, l'ANVUR nel suo documento della scorsa estate sui criteri per la costituenda abilitazione scientifica nazionale utilizza ed equipara due sistemi di indicizzazione delle riviste scientifiche internazionali ai fini della valutazione di candidati e commissari:
1) Thomson ISI
2) Scopus


In principio fu Thomson Reuters e il suo indicatore di qualità scientifica noto come Impact Factor. E' stato questo il primo sistema di classificazione delle riviste scientifiche. Le riviste scientifiche più citate sono dotate di IF e vengono riportate nel "Journal Citation Report" di Thomson Reuters.
Il pensiero dominante nel mondo dice grossomodo che "se pubblichi un tuo lavoro su una rivista con IF allora il tuo lavoro è di qualità" (per questo solo una esigua parte delle riviste scientifiche è catalogata nel JCR). In Italia non tutti sono d'accordo su questo punto (e, a onor del vero, non soltanto da noi). Ma si sa che a noi italiani piace particolarmente distinguerci. Soprattutto se ci torna comodo...
Per sapere gli IF delle riviste scientifiche (informazione utile quando si deve selezionare la rivista cui inviare in valutazione il proprio paper) è necessario avere l'accesso a pagamento al JCR. Le informazioni di JCR non circolano e se circolano senza autorizzazione (senza aver pagato) Thomson ne chiede la rimozione dalla rete.

Negli ultimi anni è emerso un antagonista del sistema "chiuso" sviluppato da Thomson: Scopus, con il suo portale SCImago e il suo SJR per riviste (indicatore alternativo dell'IF di Thomson).  Sostanzialmente cambia poco. I dati contenuti in SCImago riguardano prevalentemente le caratteristiche bibliometriche (es. H-Index) delle singole riviste e la produttività per nazioni e aree geografiche dei diversi ricercatori che pubblicano sulle riviste indicizzate in Scopus. Alla fine, così come per il Journal Citation Report, ne viene fuori un ranking delle riviste scientifiche (e delle nazioni) più teoricamente valide (ma sicuramente più citate) al mondo, tutte classificate in base al SJR.
Quello che cambia è l'accesso ai dati bibliometrici del database Scopus (di proprietà di Elsevier), offerto gratuitamente dal portale SCImago. Di certo, l'open access a una banca dati ricca e completa come quella offerta da SCImago è una risorsa importantissima per tanti potenziali audience (giornalisti, blogger ecc...) oltre che per chi lavora direttamente nel mondo della ricerca.

Riusciranno Scopus e SCImago a scassinare la serratura di Thomson e del JCR? Difficile dirlo adesso. Secondo me, tuttavia, qualcosa riusciranno a smuoverla. In tanti settori tecnologici si possono trovare casi in cui i sistemi aperti hanno vinto (o quantomeno recuperato tantissimo terreno) nei confronti dei sistemi "first-mover" chiusi. Unica cosa certa è che, per quanto concerne la neonata competizione tra JCR e SCImago, il sistema di indicizzazione delle riviste che risulterà vincitore diventerà il benchmark di riferimento per la publication strategy delle comunità scientifiche di tutto il mondo.

mercoledì 14 marzo 2012

Peer-review o Pere-review?

Sono ormai 5 mesi che attendo una review di un articolo da una rivista italiana (peraltro neanche di grande prestigio a mio avviso).

In passato il medesimo (sfigato) articolo non ha avuto alcuna considerazione da parte dei reviewer di un'altra rivista italiana (egualmente di medio-basso livello). Dopo un anno esatto (365 giorni) l'ho ritirato dal non-referaggio: voi sarete dei pagliacci, io no.

Ho attualmente attivo un processo di referaggio con una prestigiosa rivista americana da un anno e mezzo. In passato, ho avuto un articolo bocciato dopo 2 anni di referaggio da una importantissima rivista internazionale.

A questo punto la domanda sorge spontanea, come diceva qualcuno in televisione anni fa: ma perchè i reviewer, invece di leggersi l'articolo loro inviato in valutazione ed essere così "peer" con il loro autore, si fanno le pere?

 
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